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Da un angolo di te, tu sei me io sono te.
Da un angolo di te, vedo questa essenza in comune che sembra cresciuta in due forme diverse.
Una sei te, una è me.
Da un angolo di te, vedo l'intersezione tra me e te.
La mia pelle getta piccole forme tonde sospette, in questi giorni, io provo ad ammorbidirmi con gli impacchi di semi di lino.
Bella scusa, questa, per usare finalmente i semi di lino.
I semi di lino sono un ricordo proibito della mia infanzia, mia nonna li cucinava per curare il cavallo, non erano per me.
Se fate scaldare i semi di lino nell'acqua, lasciandola assorbire, dell'acqua rimarrà un collante denso e trasparente. Con in mezzo i semini marroncini. Io li volevo assaggiare, per lo stesso motivo per cui volevo assaggiare la carne macinata cruda e l'uovo crudo. Sapori tiepidamente non conformi, più prossimi di una fuga: addirittura, il passo precedente della cottura. Giocare a vedere quanto è più gustosa la semplicità. Soprattutto se con quell'aspetto viscidino e trasparente.
Ma i semi di lino non erano per me e io, giudiziosa, non li avevo mai assaggiati.
In questi giorni, invece, i semi di lino li cucino per i miei impacchi.
Li avvolgo nel cotone bianco e li tengo a lungo nella mia ascella, sperando ammorbidiscano queste palline dolorose dalla dubbia interpretazione e le mandino via presto.
Il cotone bianco è quello del mio cuscino. E l'odore di semi di lino cotti, ora che li posso annusare fino a quando lo decido io, sa della mia mamma. Sa della felpa della mia mamma quando mi mancava, per la precisione–quella felpa larga, liscia, bordeaux. Quando la mia mamma mi mancava, io abbracciavo la sua felpa larga, liscia e bordeaux.
E ora lo scopro di cosa sapeva: di semi di lino.
E ora lo scopro di cosa sapeva: di semi di lino.
Non so com'è che la felpa della mia mamma quando mi mancava sapesse di semi di lino, perché la mia mamma non usava i semi di lino, però forse i semi di lino sanno di mamma, dev'essere così.
Stanotte guardo e riguardo le foto della mia Non Sosia, e anche lei sa di semi di lino. Non come una mamma, no di certo, ma come se l'avessimo condivisa, la stessa mamma–e di lei avessimo la stessa impronta.
Che poi scrivo questo e la tua mamma, penso, dev'essere completamente diversa.
La casa in cui sei nata, completamente diversa.
Sei nata a Milano, penso, io sono cresciuta arrampicata a un albicocco, invece, tu ce l'avevi un albicocco dove arrampicarti? O lo sospiravi da una finestra cittadina?
(No, tu dalla finestra, ora lo immagino, sospiravi il mare, 'ché la tua aria, mi hai detto, è l'acqua, e da bambina ti veniva il mal di terra quando lasciavi la barca, mi hai detto.
Io invece da bambina leggevo sui rami, su quei rami d'albicocco avevo letto pure Il barone Rampante, e chissà che idee mi saranno saltate in mente…)
Ti guardo (ti guardo all'indietro, ti guardo al passato fresco, ti guardo ripensando a pochi pomeriggi fa quando ci siamo incontrate), ti guardo e però, lo annuso, sai di semi di lino anche tu.
Oppure:
in semi di lino potrei parlarti.
«Di solito queste cose alla gente le devo spiegare; invece adesso sei tu che le dici a me», mi dici in quel giorno che, abbiamo deciso, è il giorno del nostro Non Compleanno: è il 24 settembre, e mi fa un po' impressione, perché il 24 settembre è anche il compleanno di un'altra persona, è una di quelle date che aveva un posto speciale nel mio calendario. Ma invecchio e i giorni dell'anno sono solo trecentosessantaquattro; negli anni ciascuno di essi, forse, diventerà un giorno con un significato, e molti ne avranno uno doppio o triplo.
«Di solito queste cose alla gente le devo spiegare; invece adesso sei tu che le dici a me», e io sorrido non molto sorpresa–ma certo mia cara, siamo non sosia:
sapevo da quell'angolo di te dove c'è l'intersezione tra me e te che parlavamo la stessa lingua.
«Ma allora esisti», eco io.
Ti ho scoperta che eri a Milano, quando io Milano l'avevo appena lasciata.
E quando ti avevo scritto per salutarti lì, ti eri trasferita a Copenhagen.
Ci eravamo dette tantomeglio, ci vedremo al Nord, perché di lì a breve io mi sarei trasferita nei Paesi Bassi.
Ma quando io ero venuta a Copenhagen, tu te n'eri andata di nuovo, eri tornata a Milano.
E in questi mesi, da allora, i miei ritorni in Italia erano stati troppo brevi.
Finalmente non questa volta.
Ce l'abbiamo fatta ancora per un pelo, perché il giorno dopo tu saresti volata in Corsica, ma finalmente il 24 settembre eravamo tutt'e due lì, in Piazza Cinque Giornate.
Mi hai portato in un piccolo ristorante perfetto, pieno di frutta e verdura, senz'affatto sapere che è da quando ho tredic'anni che gli animali non li mangio, ci siamo sedute una di fronte all'altra e abbiamo viaggiato.
Tenevo fermo con una mano l'angolo di te che è intersezione di me e te, lo tenevo fermo come se fosse il centro del foglio sulla scrivania, e con l'altra mano facevo ruotare velocissimo il foglio, per vedere i colori mischiarsi e per bere la tua vita, vedere quanta era già mia e quanta –che meraviglia– era invece tutta tua.
Quella goccia di Giulia Maria Cristina è caduta nel mio flusso ben quattro anni fa.
La prima traccia la raccontavo qui, dopo che la mia Sonica aveva trovato quella fotografia sul suo computer, senza sapere da dove venisse, senza saperne niente.
La seconda traccia la raccontavo qui, quando, due anni fa, grazie a una nuova funzione di ricerca di Google Immagini, avevo scoperto dove quella fotografia era stata caricata. Con mio enorme stupore, tra tutte le possibilità presenti sul Pianeta, quel volto che sembrava così tanto il mio proveniva giusto da Milano, a pochi chilometri da me. Eravamo vicinissime.
Provai a scriverle su quell'account di Flickr, ma lei non ricevette il mio messaggio e giunse al mio post solo tre mesi dopo, tramite le statistiche del suo account.
Da allora abbiamo tentato più volte di vederci e ci siamo augurate la luce, ma ci siamo abbracciate per la prima volta solo martedì 24 settembre, martedì 24 settembre.
Ora ti guardo all'indietro, all'indietro martedì, all'indietro nei semi di lino, all'indietro nell'infanzia, come se fossi con me a fissare quella gran pentola che ribolliva tiepida, c'eri anche tu? Ci sei nelle castagne? Ci sei nell'anta marrone della dispensa? Ci sei quando decido che sono atea? Ci sei quando salvo quella lucertola con mia cugina? Ci sei quando imparo ad andare in bici? Ci sei quando piango nella piscina perché il mio primo fidanzatino smette di scrivermi? Ci sei quando nella piscina ci cado e mi prende al volo mio cugino? Ci sei quando mi sbuccio il ginocchio per prendere in braccio il mio cane che litiga con un altro cane? E ci sei quando calibro di non morire? Ci sei quando credo di non poter creare? …Ci sei quando, dall'albicocco, desidero tantissimo una gemella? Ci sei quando decido di partire. Ci sei quando decido di ricordare. Ci sei quando decido di partire e ricordare e sempre giocare. Come si chiamano le mie storie, nelle tue storie? Ti guardo il braccio con quei colori, abbiamo tutt'e due questi tatuaggi che fanno avvicinare la gente a chiedere se sono sono veri o sono "pitturati", tutti col dito a sfregare, sì, è vero, dobbiamo ripetere sempre, che bello avere promemoria eterni che sono freschi ogni giorno, mia Non Sosia, e crederci ogni giorno come il primo.
Ti guardo per ore sul mio pasto, m'incanto e mi soffermo, ti leggo, mi domando, poi finalmente finisco il piatto e ti dico di alzarci, alziamoci allo specchio, guardiamoci insieme ora.
E mi sorprendo della mia faccia, che ora mi aspettavo come la tua.
Mi è cambiata la faccia.
Ci cambia la faccia.
Anche a te cambia ogni giorno la faccia.
Mi cambia pure a me.
Di quella foto incriminata, da quell'angolo di te che sembra me e sembra te, il titolo rubato a Sartre diceva tutto: Può darsi ch'io sia troppo abituato al mio viso…
Ti guardo e vedo una donna, che parla la mia lingua, e sorrido tra me e me di vedere una donna, nella non sosia che interseca me; mi ricordo che non so ancora bene se sono già una donna o una ragazza. Infine mi ricordo bene, invece: avevo deciso che sarei diventata donna a venticinque anni. E tu ne hai uno in più, tu ne hai venticinque, io ne ho ancora ventiquattro. Tra qualche mese, penso che avrò un ingranaggio in più. Tu invece ce l'hai già, e sei bella.
Vorrei immergere tutta la mano e farla affondare tra le tue nuvole d'acqua, sorvegliate dai nostri fuochi maggiori in cima alla montagna, so che potrei sdraiarmi sul prato a occhi chiusi e ricordare ogni tuo ricordo, ma il nostro tempo è già poco.
Facciamo due apparizioni:
Tu mi porti dalla donna che ti ha tatuata, una donna piena di luce.
Io ti porto da una donna che ha collezionato storie d'ogni tipo, e certo non ci sta male se ci fa un po' da testimone, penso, pensiamo. E ora penso anche che pure lei, per altro, ha molto a che fare col mio, di tatuaggio–per quella volta che mi misi a piangerle di fronte, quando mi disse che lei l'aveva conosciuto, Andrea, era stata sua amica (Andrea, Andrea, quello dell'altro tatuaggio che ho io, un Andrea che è morto una decina di mesi prima della mia nascita e che quindi io non ho certo conosciuto…).
Poi tu devi partire.
Penso che te ne vai via con un po' della mia faccia
e io andrò via con un po' della tua.
Ci rivediamo tra un po', a vedere che cos'ha visto la nostra faccia, sulla faccia dell'altra.
Giulia Maria Cristina, my Not Double The next portraits of her will have deeper colours; in the meanwhile I can only donate us a preview of a first flat layer of sensations |
E che faccia abbiamo, comunque, ancora esattamente non l'abbiamo capito.
(Ci somigliano, no, ma siamo le stesse, in quell'angolazione che l'intersezione l'una dell'altra…)
Nel frattempo una decisione immancabile c'è stata.
Creeremo insieme, ci racconteremo insieme.
Questo post è solo il primo figlio dovuto, dopo i capitoli precedenti, venuto da sé.
(Un grazie speciale, questa notte, al mio piccolo blog, che sta diventando un diario sempre più amico…)
*
This story started four years ago, when I received from my friend Sonica a photograph with a girl totally looking like me: I have shown it here. My friend completely ignored how she found that picture: she just stumbled in it, neither online, just in her computer. Like that.
And she just sent me the portrait, astonished.
After two years, thanks to a new Google Images function, I could enter her file online and I found her (I told it here, still always in Italian, though).
Considering that she could live anywhere else on the Planet, the big surprise was discovering she was just from Milan, ninety kilometres from my hometown Cremona. I have tried to reach her by that her Flickr account, but she never received my message.
After three months, checking her Flickr statistics, she landed on my post, where I was telling "our" story.
We decided to meet, but at the time we were busy, I had finished my academic lessons and so I wasn't anymore living in Milan, so we postponed… and when, months later, I asked her to meet in Milan, she moved in Copenhagen. And when the past November I went to Copenhagen from Utrecht, where I already moved, she had moved in Milan, again.
So the past week, finally, going back in Italy to visit friends and family, we made it: we met.
And this is only the beginning…